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“Silenzio per Gaza” e lo sciopero digitale: facciamo chiarezza

Cari Lettori,

Nel post precedente mi son occupata di una catena che mi era arrivata su Whatsapp. Ecco, deve essere proprio la stagione di fine estate che concilia queste cose, perché anche in questi giorni circola su WhatsApp una catena che merita la nostra attenzione, più che altro perché induce a pensare di potersi dichiarare impegnati a favore di una causa molto importante, facendo un gesto semplice. In realtà, dovremmo sempre ricordarcelo, i gesti semplici possono al massimo essere piccoli simboli per noi e chi ci sta vicino, ma per ottenere grandi risultati su problemi mondiali, purtroppo, servono impegno e sforzi ben più rilevanti.

La catena in questione, dunque, invita a uno “sciopero digitale totale” dalle 21 alle 21.30 per una settimana, con l’idea che ciò possa avere un impatto economico e politico in grado di influenzare le politiche nei confronti di quanto sta accadendo nella striscia di Gaza. Analizziamo insieme i punti principali.


1. “Crollo del traffico internet registrato da ISP e piattaforme”
➡️ In realtà, 30 minuti di disconnessione non producono nessun “crollo” significativo. Il traffico globale è talmente enorme e distribuito che un’assenza temporanea di utenti in una fascia oraria serale non viene percepita come blackout.


2. “Perdite enormi per pubblicità ed e-commerce”
➡️ Falso. Le piattaforme digitali misurano i ricavi sulla base di miliardi di impression e interazioni al giorno. Un calo di mezz’ora, anche se coinvolgesse milioni di persone, non comporterebbe perdite economiche rilevanti: si tratta di una frazione insignificante del traffico complessivo.


3. “Impatto sugli algoritmi e sui server”
➡️ Non funziona così. Gli algoritmi dei social non si “interrompono” per un calo temporaneo: sono progettati per gestire oscillazioni di traffico molto più ampie. Nessun server registrerebbe un’anomalia tale da innescare un segnale politico.


4. “Un segnale forte ai leader politici”
➡️ I governi non monitorano direttamente le statistiche dei social per prendere decisioni internazionali. Le azioni che hanno più impatto politico sono altre: manifestazioni pubbliche, appelli firmati, pressioni diplomatiche, raccolte fondi per aiuti umanitari, sostegno a ONG attive sul campo.


5. “Un atto di resistenza digitale”
➡️ Il valore simbolico può avere senso se vissuto come momento personale o collettivo di riflessione. Ma non bisogna confondere un gesto intimo con un’azione capace di modificare algoritmi, economie o decisioni politiche.


✅ In conclusione

Spegnere il telefono mezz’ora al giorno può essere una scelta utile a livello personale, come pausa di consapevolezza e di solidarietà simbolica. Ma non ha alcun effetto tecnico, economico o politico misurabile.
Se davvero vogliamo sostenere la popolazione di Gaza, esistono strumenti più efficaci: informarsi da fonti affidabili, sostenere organizzazioni umanitarie, partecipare a iniziative pubbliche, promuovere un dibattito informato.

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WhatsApp e la “privacy avanzata della chat”: facciamo chiarezza

Negli ultimi giorni sono tornati a circolare nei gruppi WhatsApp messaggi allarmanti secondo cui sarebbe “obbligatorio attivare la privacy avanzata” per impedire a una presunta intelligenza artificiale di accedere alle chat private, ai numeri di telefono e ai dati personali.

Il testo invita tutti i partecipanti a un gruppo a chiedere agli amministratori di attivare manualmente l’opzione “Privacy avanzata della chat”, con la promessa di proteggersi da intrusioni indesiderate.

➡️ Si tratta di una notizia falsa.


Cosa fa davvero la “privacy avanzata della chat”

La funzione Privacy avanzata della chat esiste davvero, ma non ha nulla a che fare con l’accesso di intelligenze artificiali alle conversazioni.
Ecco cosa comporta quando viene attivata in un gruppo:

  • impedisce di esportare la cronologia della chat;
  • blocca il salvataggio automatico di foto e video nella galleria;
  • disabilita alcune funzioni sperimentali di IA (ad esempio i riepiloghi dei messaggi non letti o le richieste a Meta AI).

In sostanza, è un’impostazione che limita la diffusione e l’uso esterno dei contenuti della chat, non una barriera contro presunte letture “segrete” da parte dell’IA.


Chi può attivarla?

  • In un gruppo WhatsApp, qualsiasi membro può attivare o disattivare la privacy avanzata della chat.
  • Gli amministratori, se vogliono, possono restringere questa possibilità e consentire la modifica solo agli amministratori.

Quindi non è vero che “tutti i partecipanti devono attivarla obbligatoriamente” , nè che è un’operazione da richiedere necessariamente agli amministratori: è semplicemente un’opzione di gestione del gruppo.


Quando può essere utile (o dannosa)

La privacy avanzata può essere una buona idea se si desidera che i contenuti rimangano strettamente interni al gruppo, ad esempio in chat di famiglia, di amici o di lavoro sensibile.

Ma in altri casi può risultare eccessiva.
Se il gruppo ha come scopo quello di condividere materiali che devono poi essere:

  • pubblicati su un sito o un profilo social,
  • rivisti insieme anche da persone esterne al gruppo,
  • recuperati a distanza di tempo per progetti o archivi,

l’attivazione della privacy avanzata può ostacolare queste operazioni, perché rende più difficile esportare e riutilizzare i contenuti.


E la sicurezza delle chat?

Ricordiamo che le conversazioni WhatsApp (sia private sia di gruppo) sono già protette con la crittografia end-to-end: ciò significa che né WhatsApp né Meta né altre IA possono leggere i contenuti. Solo mittente e destinatari hanno accesso ai messaggi.

In genere quanto troviamo in rete che lede la privacy delle persone è frutto di screenshot o di fotografie fatte agli schermi, azione che evidenzia quanto in realtà il maggiore rischio di lesione della propria privacy si abbia da comportamenti messi in atto da esseri umani.


Conclusione

La “privacy avanzata della chat” è una funzione reale e utile in alcuni contesti, ma non ha nulla a che vedere con i messaggi allarmistici che stanno circolando.

👉 Attivarla o meno non è un obbligo: va valutato in base alla finalità del gruppo.
👉 Nessuna intelligenza artificiale ha libero accesso alle chat WhatsApp: i messaggi sono già protetti dalla crittografia end-to-end.

Soprattutto, ricordiamo sempre: prima di inoltrare messaggi catena, meglio verificare le fonti.

Grazie a tutti,

Federica

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Riflessioni su ChatGPT a scuola

Cari lettori,

L’argomento è impegnativo, ma l’ennesimo articolo uscito proprio in questi giorni ha finalmente vinto la mia ritrosia a passare dall’esperimento pratico (che trovate, infatti, molto più di frequente nei miei post) alla riflessione teorica.

Pietro Minto è un giornalista e scrittore italiano, nato a Mirano nel 1987. Ha studiato a Padova e Roma, e attualmente risiede a Milano. Negli ultimi dieci anni, si è concentrato principalmente su tematiche legate alla tecnologia e alla cultura digitale, collaborando con diverse testate tra cui Il Foglio, Il Post e Linkiesta.

L’articolo di Pietro Minto “Il difficile rapporto tra scuola e ChatGPT” , pubblicato su Lucy il 14 febbraio 2025, analizza l’impatto dell’intelligenza artificiale generativa, come ChatGPT, nel contesto educativo italiano. Secondo una ricerca di NoPlagio.it, il 65% degli studenti italiani tra i 16 e i 18 anni utilizza ChatGPT o servizi simili per studiare e svolgere i compiti. Questo dato evidenzia la crescente diffusione di tali strumenti nelle scuole e università, sollevando preoccupazioni tra docenti e istituzioni riguardo all’integrità accademica e all’efficacia dell’apprendimento.

Già sui primi paragrafi dell’articolo mi prendo una pausa per pensare alle reazioni dei miei ragazzi quando chiedo esplicitamente di svolgere un’attività con ChatGPT. C’è chi sogghigna, chi dice di non essere capace (ma lo è o lo fa?), chi mi guarda come se temesse per la mia salute mentale…

Insomma, il tabù non è solo prerogativa degli insegnanti, nella mia esperienza. Ma continuiamo con la sintesi dell’articolo, che ricorda la scelta di alcune istituzioni che hanno inizialmente cercato di limitare l’accesso a questi strumenti. Ad esempio, nel 2023, i distretti scolastici di New York e Los Angeles hanno bloccato l’accesso a ChatGPT, salvo poi revocare la decisione e riconoscere il potenziale educativo dell’IA generativa. In Italia, il Ministero dell’Istruzione ha avviato una fase di prova biennale in quindici scuole per integrare l’IA nei programmi didattici, con l’obiettivo di valutare l’impatto sull’apprendimento degli studenti. Di questo progetto abbiamo già parlato qui.

L’articolo sottolinea come la pandemia abbia accelerato la digitalizzazione della scuola italiana, con l’adozione di piattaforme come Google Classroom e Microsoft Teams.

Da persona vive la scuola ogni giorno, posso dire che per chi non la frequenta dagli anni ’90, l’ambiente scolastico di oggi appare radicalmente trasformato. Non è stata solo la pandemia a segnare il cambiamento: negli ultimi decenni, le possibilità offerte dalla tecnologia nella didattica si sono evolute in modo profondo, ridefinendo strumenti e metodi di insegnamento, e sono a disposizione di chi vuole usarle in quasi tutte le scuole, in misura più o meno consistente.

Tuttavia, l’integrazione di strumenti avanzati come ChatGPT presenta sfide uniche. L’articolo in questione continua citando Alessandro Cocilova, docente di informatica e matematica a Francoforte, il quale osserva che mentre le risorse educative sono diventate più accessibili digitalmente, l’uso di ChatGPT richiede un ripensamento delle metodologie didattiche per garantire un apprendimento autentico.

Alcuni insegnanti hanno iniziato a incorporare l’IA nelle loro lezioni. Pietro Stori, professore di Filosofia e Storia a Milano, utilizza ChatGPT per creare verifiche e stimolare discussioni in classe, pur riconoscendo le preoccupazioni dei colleghi riguardo all’uso improprio dello strumento. Gianluca Nativo, docente di Italiano, Storia e Geografia, sfrutta l’IA per semplificare testi complessi, rendendoli più adatti agli studenti più giovani.

Sono alcuni tra i possibili utilizzi che abbiamo delineato e tentato di sperimentare anche nei post precedenti e su cui torneremo anche in quelli successivi.

Una delle principali preoccupazioni, ci ricorda Minto, riguarda l’uso di ChatGPT per svolgere compiti a casa, poiché potrebbe ridurre l’impegno degli studenti e ostacolare lo sviluppo del pensiero critico. Per contrastare questo rischio, alcuni docenti richiedono che gli studenti documentino il processo di scrittura, utilizzando strumenti come Google Docs per monitorare le modifiche e garantire l’autenticità del lavoro.

Anche su questo, al momento, i miei esperimenti personali mi dicono che è molto difficile per i ragazzi svolgere un lavoro di documentazione del prompting adeguato: riflettere su ciò che si chiede e su come chiederlo meglio per ottenere risposte sempre più valide, infatti, è un compito difficile da spiegare e di livello molto alto per chi lo deve eseguire. Fa uscire tutti – docenti, studenti e famiglie – dalla zona di comfort offerta dai binari tradizionali. La ferrea sequenza lettura-studio-ripetizione, infatti, proprio quella che rende il compito così prevedibile da essere scontato ed eseguibile in pochi secondi per l’IA, è la gabbia dorata di chi aspira ad un sicuro traguardo in termini di titolo di studio. Rassicurante per il docente, che fa fare agli studenti esattamente ciò che ripeteranno all’esame, strutturato come la stazione di arrivo di quei binari. Confortevole per lo studente, che, se è di buona volontà si allena su quello senza sorprese, mentre se è un furbetto sa già come copiare. Esplicito e inequivocabile per le famiglie, che forse avrebbero difficoltà a seguire i figli in un percorso troppo diverso come modalità da quello in cui sono cresciuti loro. Secondo me queste ragioni psicologiche e culturali ostacolano veramente un uso proficuo di ChatGPT nella scuola, più ancora di qualunque, pur non trascurabile, preoccupazione cognitiva o etica, sulla privacy o sulla tecnologia.

L’articolo conclude evidenziando la necessità di una formazione adeguata per gli insegnanti sull’uso dell’IA in ambito educativo. Andrea Garavaglia, professore all’Università degli Studi di Milano, sottolinea l’importanza di aggiornare le competenze dei docenti per colmare il divario tecnologico e sfruttare appieno le potenzialità offerte dall’IA, evitando che l’adozione di queste tecnologie avvenga in modo disomogeneo tra diverse istituzioni educative.

Apprezzo l’ottimismo e le pie speranze di Andrea Garavaglia, con cui ho avuto il piacere di lavorare in passato e che stimo moltissimo. Sono sicuramente in prima fila nel cercare di colmare i divari e favorire l’equità di accesso alla tecnologia per studenti e docenti, anche se non nego che occasionalmente mi viene un po’ di orticaria quanto capto discorsi di colleghi immersi nella nostalgia del passato e ostili a qualunque cambiamento…

Ma passa tutto quando entro in laboratorio con i ragazzi e faccio tante belle cosucce… Che vi descriverò nel prossimo post!

Federica